
Estate del 2016.
Il torneo è appena finito, e io tengo in mano una magnifica medaglia di bronzo.
Sul podio, oltre a noi, ci sono anche i brasiliani Alison e Bruno.
Abbiamo battuto il meglio del meglio del circuito mondiale e ci siamo meritati un piccolo momento di gloria. Non sto sognando.
E non è un refuso.
L’ultimo grande appuntamento della stagione olimpica si è concluso alla grande, ma dentro di me qualcosa sembra fuori posto.
Lo sembra perché quello, nonostante sia il 2016 e pur essendoci i brasiliani, non è il podio delle Olimpiadi di Rio, ma è quello delle World Tour Finals.
Io e il mio compagno, a Rio, non ci siamo andati, pur rientrando nelle migliori 16.
Ai Giochi ci vanno le squadre meglio posizionate nel ranking e questa, da sola,
sarebbe una base puramente meritocratica.
Io, però, sono nato negli Stati Uniti, e la concorrenza qui è piuttosto agguerrita,
sicuramente più agguerrita che in ogni altro Paese del Mondo, fatta forse eccezione del Brasile. Per cui, essere al posto giusto nel ranking non basta, bisogna anche
essere dentro le country quotas, il che significa, semplicemente, essere una delle due prime coppie della nazione.

Non solo: esistono due differenti ranking, uno è quello olimpico, che considera i risultati dell’ultimo anno e mezzo, e l’altro è quello del World Tour, in cui compaiono le stesse identiche coppie, e che considera un lasso di tempo più breve.
Il primo premia maggiormente gli exploit, le grandi vittorie, il secondo invece valorizza la continuità di rendimento.
Ma il circuito, a livello elite, è talmente ristretto e competitivo, che le due classifiche spesso si equivalgono, e le variazioni che si possono trovare da un ranking all’altro sono minime.
Noi siamo stati una di quelle.
Piccole parentesi della storia, in cui a determinare qualcosa non è soltanto il merito, ma anche un meccanismo asciutto, pensato su carta, che è uguale per tutti, ma ingiusto per qualcuno.
Alla chiusura della qualifica per Rio 2016, noi eravamo la seconda miglior coppia americana del ranking nel World Tour ma solo la terza miglior coppia in quello olimpico.
E abbiamo dovuto cedere il passo a chi ci aveva preceduto.
È strano essere bravi a far qualcosa e non avere l’occasione di mostrarlo al Mondo intero sul palcoscenico più importante. Ti lascia dentro un senso di inespresso che resta sospeso per tutta la vita.
La logica si affanna per affiorarti in testa.
Per dirti che tutto, in fondo, è comprensibile.
Ma quel che provi assomiglia ad un puzzle, fatto di tanti pezzi quante sono le ore che hai lavorato per arrivarci, a cui mancherà per sempre l’ultimo pezzo.
I Giochi cercano di essere aperti e di abbracciare quanta più umanità possibile e questo lo capisco, ma è vero anche che ci sono luoghi, e ci sono discipline, in cui essere il terzo migliore del proprio Paese significa anche avere una chance onesta per una medaglia olimpica, che in questo sistema ti viene tolta d’ufficio.
Finché il mio merito vale una medaglia olimpica virtuale dovrei potermela giocare sul campo, a prescindere dal desiderio di fare dei Giochi un momento di partecipazione globale.
La coppia che è andata a Rio al posto nostro è arrivata ultima, in uno stranissimo gioco del destino. Durante tutto il corso della competizione mi sono sforzato di tifare per i miei connazionali, che sono, e ci tengo a dirlo, anche dei buoni amici.
Gente che ha meritato di esserci quanto lo avrei meritato io.
Ma qualcosa in me, giù nel profondo, desiderava tanto vederli perdere e questo dualismo mi ha scosso sempre più, dandomi emozioni contrastanti.
Due settimane più tardi, sul podio delle World Tour Finals, con in mano il mio bronzo, ho pensato che il peggio fosse passato.
Quel risultato, fatto in un contesto sportivamente ancora più competitivo rispetto ai Giochi, perché privo delle quote nazionali, dava una nuova giustificazione al mio ego.
Avevo 28 anni ed ero nel pieno delle mie forze.
Le altre coppie stavano invecchiando e il nuovo quadriennio olimpico sarebbe stato quello della mia consacrazione.
Non immaginavo neppure quanto sarebbe stato difficile.

Durante la stagione avevo convissuto con un problemino alla caviglia.
Niente di grave, certo, ma comunque un fastidio costante che mi ha debilitato per tutto l’anno e costretto a giocare con delle iniezioni di cortisone.
Motivo per cui, messo a terra l’ultimo pallone, sono andato sotto i ferri, per una bella pulizia.
Un intervento assolutamente di routine.
Al mio rientro però, nelle settimane di preparazione, ho iniziato a sentirmi addosso
una fatica strana, che ogni giorno diventava più invadente e fastidiosa.
Mi allenavo e non riuscivo a recuperare.
Scendevo in campo e i muscoli si facevano via via più duri e stanchi.
Ho completato tutto il percorso di avvicinamento alla stagione, convinto che prima o
poi avrei ritrovato la brillantezza perduta.
Però, arrivato a pochi giorni dalla partenza per il primo torneo, ecco la doccia
fredda: i miei valori sono sballati e i medici consigliano prudenza.
Una settimana fermo.
Poi un’altra.
Poi un mese, poi due.
Sono arrivato al punto di non riuscire a camminare o a sedermi senza provare dolore.
Era come una sensazione diffusa di stanchezza estrema, che viene da dentro e che ti
consuma i muscoli e le ossa, rendendo ogni cosa collosa e difficile.
Quando abbiamo fatto la biopsia ad un pezzo di muscolo che mi era stato tolto dalla coscia, è arrivata la diagnosi.
Si chiama dermatomiosite, ed è una malattia autoimmune che prende tutto il corpo. Il cervello manda il segnale all’organismo, che in tutta risposta fa scattare il dolore.
Come un cortocircuito.
Le uniche possibile cause, mi hanno detto i medici, potevano essere l’operazione
oppure lo stress; o magari una combinazione di entrambe.

Mi ci sono voluti due anni interi per tornare a giocare.
24 mesi spesi tra terribili dolori fisici e la necessità di affrontare me stesso, i miei perché e le mie paure.
Sono andato a fondo nel mio pensiero, sincero nei modi e pronto ad accettare tutto quel che avrei trovato.
Mi sono sposato, e quando poi ho ritrovato il mio equilibrio abbiamo disegnato una road map per il rientro, perché la voglia di Olimpiade è stato fin dal primo giorno la mia principale motivazione a continuare.
Dopo mesi e mesi di attesa e di fatica sono tornato in campo, il caso ha voluto,
proprio durante il primo torneo in assoluto di qualificazione per Tokyo 2020, che era solo un torneo 3 stelle, ma che mi ha emozionato come se fosse stato il primo della mia carriera. Abbiamo vinto l’evento e per una notte sono andato a dormire in cima al ranking olimpico.
I miei ostacoli, comunque, non erano ancora finiti, perché dopo le country quotas e la malattia, ci si è messa anche una mano rotta a farmi perdere alcuni eventi a 5 stelle per la Qualifica Olimpica, in un quadriennio che, per me, era già dimezzato in partenza.
Quando guardo alla mia esperienza sportiva mi è impossibile sentirmi esattamente come gli altri. Odio lamentarmi, e non è certo quello che sto facendo, ma è altrettanto indiscutibile che sulla strada del sogno olimpico ci siano numerosi fattori che rendono il mio viaggio molto complesso.
Ma più di ogni altra cosa è diverso da quello degli altri.
È il mio percorso, è unico, pieno delle mie sfide.
Senza comparazione con quello degli altri o giudizio subito da alcuno.
Ho smesso di paragonarmi agli avversari, come ho fatto nel quadriennio di Rio, e
iniziato a focalizzarmi sul meglio da fare nel mio specifico cammino.
Quattro anni, più uno causa pandemia, più tardi, mi trovo di nuovo a giocarmi il
destino fino all’ultimo punto, fino all’ultimo torneo, per godere davvero di
un’avventura che in cuor mio sento comunque di meritare.
E forse la vera domanda si nasconde proprio qui: che cosa fa di un atleta un Olympian?
L’esserci andato?
L’aver meritato la partecipazione?
L’aver dedicato tutta la propria vita ai Giochi?
Oppure il sentirsi semplicemente tale?
L’ultima pagina del mio libro è ancora tutta da scrivere, ma non sarà una lettura lunga, perché tutto si deciderà tra poco. Ho la certezza che alle Olimpiadi, a seconda dello sport, non per forza ci vanno sempre i migliori al Mondo, perché tutto dipende anche dall’epoca che vivi, dalla disciplina, dal Paese in cui sei nato e dalla sorte.
Ed è proprio per questo che, a prescindere da qualsiasi cosa accada e da qualunque risultato, nessuno potrà mai sentirsi, in cuor suo, più orgoglioso di me.
Sarò sempre fiero di me e dei miei sforzi, non importerà il risultato finché farò tutto per raggiungere i miei obiettivi. Questo ha maggior valore nel mio cuore rispetto a qualcun altro che mi etichetta come Olympian, o l’ottenere il tatuaggio con i cerchi.